Riflessioni sui contenuti e durata della formazione per i lavoratori.
In materia di salute e sicurezza sul lavoro la formazione è obbligatoria e sottostà a regole normative e di mercato che possono essere inadeguate allo scopo: la tutela fisica e psicologica delle persone.
È un argomento spinoso, lo so, la formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro per i lavoratori. Ed è reso ancor più difficile dall’estrema ignoranza che le imprese hanno sull’argomento, unita allo scetticismo che provocano molti (troppi) operatori del settore che ci speculano sopra.
Il criterio con cui è poi stata scritta la norma di riferimento e l’accordo che ne regola i contenuti e la durata, poi, non è proprio dei più illuminati.
Partiamo dal fatto che sono individuati contenuti standard basati quasi esclusivamente su presunzioni. Si presume che aziende che operano in contesti merceologici simili, abbiano rischi simili. Il che può anche essere vero, fintanto che si affronta l’argomento in linea generale. Ma nel momento in cui la formazione assume un ruolo centrale nella prevenzione di incidenti e infortuni o malattie professionali o, più in generale, nella promozione della cultura della salute, questo approccio è assolutamente fallace e inadeguato: aziende con la stessa classificazione ATECO possono avere rischi diversi o rischi uguali ma a cui il processo di valutazione ha assegnato gradi differenti anche in modo sensibile.
Facciamo un esempio: tre officine meccaniche di tre datori di lavoro diversi. La prima impiega un solo operario, che è anche il titolare, ed è specializzata nel restauro di automobili d’epoca, ha un ambiente di lavoro relativamente piccolo e ordinato, funzionale allo scopo, e le lavorazioni sotto alle automobili sono effettuate scendendo in una fossa. La seconda è un’officina in cui lavorano cinque persone, in un ambiente e in un contesto in cui si dà poca importanza alla sicurezza, ci sono poche informazioni, strumenti e attrezzature vecchie e in cattivo stato di manutenzione, raramente sottoposte a controllo o revisione, un ambiente sporco e disordinato in cui si trovano vicini oggetti e sostanze infiammabili e potenziali fonti d’innesco perché i lavoratori fumano all’interno dei locali. La terza è un’officina nuova e all’avanguardia, un cui molte attività sono assistite da robot, e l’ambiente è organizzato, pulito e ordinato, i lavoratori sono tutti tecnici specializzati che frequentano frequentemente corsi di formazione e aggiornamento.
Ebbene, non serve un genio per intuire che i rischi presunti possono anche essere identici, ma quelli reali non lo sono affatto.
E qui la prima critica, al legislatore: visto che si vuole spostare l’accento sull’adeguatezza dei sistemi di organizzazione e di controllo, perché non si richiede una formazione adeguata al contesto, anziché una cosa che troppo spesso è standardizzata?
Secondariamente, vi invito a riflettere sull’essenza stessa della formazione. Questa è dovuta a un processo comunicativo che è finalizzato a trasferire dalla mente del docente alla mente del discente tutti quei concetti che devono servire a quest’ultimo per lavorare in sicurezza, conoscendo i suoi diritti, i suoi doveri e il modo in cui rapportarsi con gli altri e valutare i rischi della sua specifica attività. Quindi la comunicazione è efficace se e solo se il concetto che sta nella testa dell’emittente viene trasferito nella testa del ricevente e quest’ultimo elabora lo stesso concetto iniziale, partendo dalle informazioni ricevute. Se ciò non avviene, la comunicazione ha fallito. La formazione ha fallito. E bisognerà necessariamente interrogarsi sulle cause, perché non è detto che sia esclusivamente colpa del ricevente: se parlo a un sordo e questo non mi capisce, è scemo lui, o sono scemo io che non uso un canale e un mezzo adeguato? Se faccio una lezione a un cieco usando grafici e diapositive, è scemo lui o sono scemo io che non mi rendo conto che il metodo che ho scelto è assolutamente inefficace? Se parlo in gergo tecnico a un neofita, non posso certamente aspettarmi che mi comprenda.
E dunque la seconda critica, al sistema messo in piedi dagli enti di formazione: quanto può essere utile una lezione standardizzata, che non tiene conto delle dovute variabili e che viene progettata con il parametro della “durata massima” anziché della “durata minima” (prevista per legge)?
Se al termine delle otto ore di corso per i lavoratori a rischio basso il docente si rende conto che la classe non è adeguatamente preparata, a mio modo di vedere dovrebbe proseguire e cambiare modo di fare lezione, variare registro linguistico, mezzi e canali di comunicazione. Parimenti, se una persona padroneggia già un determinato argomento, ripeterlo ulteriormente potrebbe addirittura creare l’effetto non voluto di creare confusione, aumentando, di fatto, il grado di rischio.
Non si tratta di bocciare o promuovere persone, perché per quello c’è la scuola. A ben vedere, “promuovere” o “bocciare” non sono nemmeno concetti contemplati dalla norma: il punto è che finché le informazioni idonee e ritenute necessarie a salvaguardare la sicurezza del lavoratore non sono state assimilate dallo stesso, la formazione dovrebbe andare avanti a oltranza, a prescindere dal miglioramento e dall’aggiornamento continuo.